Presenza dell'assenza
Non c’è volontà di dire in Simone Meneghello. Non c’è messaggio, non c’è narrazione. C’è solo l’osservazione—pura, radicale—del limite come soglia invalicabile, come orlo del linguaggio stesso. La sua opera non parla: esiste, si pone davanti allo spettatore come un vuoto che chiede di essere attraversato senza risposte, essa è l’osservatore che osserva se stesso. I libri acromi, le enciclopedie compattate, le scatole senza fondo, le sovrascritture: tutto in Meneghello è un monumento al non-dire. Non sono metafore, non sono allegorie. Sono presenze fisiche che incarnano l’impossibilità di comunicare oltre il segno, oltre la materia. L’artista non decostruisce il linguaggio, lo abita, ne esplora i confini con la stessa fredda precisione di un geologo che studia una roccia, di un mistico che “sta senza volontà“. Non c’è romanticismo in questo gesto, solo un’etica dell’attenzione. Eppure, proprio in questa rinuncia alla significazione, l’opera acquista una forza paradossale. Diventa un silenzio attivo, un’assenza che pesa come un macigno. Le pagine bianche, i volumi muti, le scritture negate non sono vuoti da riempire, ma tracce di un’assenza che si fa presenza o meglio di una “presenza dell’assenza”. Meneghello non ci chiede di interpretare, ma di guardare—di confrontarci con l’essenza stessa del limite, che è anche il nostro. In un’epoca satura di parole, di spiegazioni, di rumore, la sua arte è un atto di resistenza: non aggiunge nulla, “toglie tutto”. E in quel tutto rimosso, ci costringe a vedere ciò che resta—il fondo nero del linguaggio, il vuoto da cui tutto emerge e in cui tutto torna.
Stare senza volontà
L’opera di Simone Meneghello incarna un concetto ieratico nel suo rifiuto della comunicazione profana, elevandosi a gesto sacrale, quasi liturgico, dove il silenzio diventa rivelazione. Il suo approccio evoca un atteggiamento medievale nella misura in cui rinuncia all’individualità espressiva a favore di un’adesione ascetica al limite, come un monaco copista che trascrive testi senza interpretarli, fedele all’autorità della tradizione e alla sacralità del non detto. La sua arte non è un atto di creazione, ma di oblazione: un’offerta del vuoto, un sacrificio del significato sull’altare della materia. Come nelle icone bizantine, dove la figura non rappresenta ma presenta il divino, le opere di Meneghello non simbolizzano l’assenza—la fanno essere. E in questa insistenza sul limite, c’è un’eco della scolastica medievale, per cui la verità non si possiede, ma la si circuisce attraverso la negazione, come in Meister Eckhart o nella theologia negativa. Il gesto ieratico sta proprio qui: nel trattare il linguaggio come reliquia, non strumento. E l’atteggiamento medievale risplende nel rifiuto della modernità narrativa, sostituita da una contemplazione austera, dove l’unica lectio possibile è il silenzio.