È una sorta di distesa di neve bianca che si pone a simbolo dell’esposizione di Simone Meneghello presso gli spazi della Fondazione Pavese, che qui espone i suoi “fogli” di racconti, trasposizione di opere rese, vissute e raccontate da un punto di vista lontano, o almeno questa è l’apparenza. Il suo non è citazionismo o omaggio fine a sé stesso, ma è commento di un’opera poetica reso lasciando alle spalle la vecchia polarità tra il reale e l’immaginario nella certezza che il viaggio fondamentalmente si compie nell’intimo. Intimità dove siamo riuniti a tutto ciò che ci è più caro ed indispensabile fin dall’infanzia, la conquista della parola e dello scritto, in quella felice fusione di cui l’arte deve essere necessaria testimonianza, come verifica dei “doveri” dell’arte, questa ricognizione affronta ora il tema del viaggio e dell’intimità dell’opera di un grande letterato, e di ciò che sopravvive al loro incontro, alla loro possibile, feconda contrapposizione.
Le opere di Simone sono messaggi: fogli, buste, boccette di vetro, sentieri di libri che citano e contengono, come a voler ribadire un incanto, i versi e le parole di Pavese. Così esposte esse raccontano immagini del tempo nello spazio, immagini dello spazio nel tempo, immagini, in cui si cristallizza la temporalità nella spazialità, la spazialità nella temporalità e la presenza dell’assenza. Opere che raccontano la vita, le parole, fatte proprie dal complesso passato dell’uomo/artista: esse sono moduli visivi, superfici figuranti destinate a quella che potremmo definire “teoria della memoria”, la sintesi estrema di un ideale trasposto e applicato ad una sorta di immaginario comune legato alla parola.
Le opere di Meneghello rendono necessario entrare in una sospensione del giudizio, richiedono la forza di allontanarsi dalla ricerca di una retorica banalmente legata al fare arte. La sua non è arte astratta, come descrizione di una realtà travisata, racconto di cose o fatti semplicemente interpretati, ma sono opere che danno un senso di attesa come se una visione più ampia potesse spiegarne vanamente il loro scopo. Si dovrebbe porre l’accento su alcune delle caratteristiche chiave dell’opera di Simone: il gesto, o il suo desiderio, che insieme all’improvvisazione e all’ombra della materia, delineano i tratti caratteristici dei suoi lavori. Sembrano neve, le sue citazioni di Pavese, su cui l’ombra della parola dello scrittore ha lasciato vaghe e impercettibili tracce.
Ombre di memoria che sfuggono alla banalità della forma e si tingono di emozioni, rompendo così la barriera tra l’io e l’altro insinuandosi nei ricordi acquisiti di chi le osserva, aprendosi in un vago sussurro per chi voglia assaporare le emozioni che hanno guidato la mano dell’artista, degli artisti, nell’esprimere uno sguardo retrospettivo: è la manifestazione del compimento di un progetto esistenziale, che si dipana nella storia collettiva e individuale di un patrimonio comune, che permette di tornare con lo sguardo all’origine di quella tensione, da cui l’azione e il progetto sgorgano. In questa prospettiva, la fine è il proprio inizio: il compimento individua la genesi, il “momento opportuno” in cui emerge un elemento capace di cambiare il fluire del tempo e il valore assegnato alle cose con il loro solo manifestarsi.
Vi sono luoghi dell’anima in cui non c’è vocio, né suono di strumenti. Sembra il frusciare di abiti leggeri in una lontana sera d’estate, perché laggiù tutto sia antico e vero allo stesso tempo. Sono spazi aperti ed essi sono simbolo dei nostri tempi, ma allo stesso tempo archetipo, di una ricerca comune, il confronto e l’interazione tra coloro che nell’arte parlano la stessa lingua porta a momenti di rara ripetibilità. C’è una strada nel mezzo percorsa da Simone Meneghello, ed è una strada che non fa riferimento solo a sé stessa, conduce ma allo stesso tempo raccoglie chi passando sceglie di vederla, essa è interna ed esterna a sé stessa, come in una prospettiva rovesciata tutto è lì, a portata di mano, e tutto avviene in un lunghissimo presente.
A noi non resta che seguire con lo sguardo quello che ci resta e vederne la superficie del tempo passato, spaventati soltanto dall’idea che qualcuno possa venire e non trovarci là. Laggiù c’è solo da spegnere l’ultima sigaretta e seguire, finalmente, quella strada in cui incontreremo, se la fortuna o la sorte ci saranno amiche, quella povera piccola cosa barcollante e perduta che però saprà insegnarci che domattina il sole sorgerà ancora e che il sorriso della bellezza ha parole che ci faranno dimenticare, anche se per un attimo, il proverbiale “vizio assurdo”.
Robert C. Phillips